Rebecca ci mise un po’ a rimettere in moto i pensieri. Lasciò perdere le incombenze che avrebbe dovuto assolvere, annullò tutti gli appuntamenti, lasciò sul tavolo, senza aprirli, i giornali che aveva comprato. Le dava fastidio vedere che le tremavano le mani – era perfino difficile capire se fosse rabbia o una qualche forma di spavento. Squillò il telefono e lei non rispose. Prese la sua roba e se ne uscì.
Sulla strada di casa, si sedette in un posto tranquillo, sui gradini di una chiesa, ai bordi di un piccolo giardino, e si costrinse a ricordare le parole di quella ragazzina. Cercava di capire cosa, di volta in volta, avevano mandato in pezzi. Tante cose, e alcune le sapeva delicate ma anche ferme, come le semplici illusioni non sono. Stranamente, prima che a se stessa pensò a Jasper Gwyn, come quelli che, rialzatisi da una caduta, controllano che non si siano rotti gli occhiali o l’orologio – le cose più fragili. Era arduo capire quanto quella ragazzina l’avesse ferito. Sicuramente aveva infranto una misura che fino a quel momento Jasper Gwyn aveva scelto come norma imprescindibile del suo curioso lavoro. Ma era anche possibile che tanta cura nel porre confini e restrizioni nascondesse in lui l’ultimo desiderio di arrivare al di là di ogni regola, anche solo una volta, e a qualsiasi prezzo – come per arrivare fino in fondo a un suo certo cammino. Dunque era difficile dire se quella ragazzina era stata per lui un colpo mortale o l’approdo a cui da sempre tutti i suoi ritratti avevano mirato. Chissà. Certo quei nove giorni senza metter piede nello studio facevano pensare a un uomo spaventato più che a un uomo arrivato – e il suo rimanere nascosto, poi, con calma ma determinazione. Sono gli animali feriti che si muovono così. Pensò allo studio, alle diciotto Caterina de’ Medici, alla musica di David Barber. Che peccato, si disse. Che immenso peccato se tutto dovesse finire qui.
Tornò verso casa, camminando lentamente, e solo allora le venne da pensare a sé, e a controllare le sue, di ferite. Per quanto la disgustasse ammetterlo, quella ragazzina le aveva insegnato qualcosa che la umiliava, e che aveva a che fare con il coraggio, o la spudoratezza, chissà. Cercò di ricordare i momenti in cui lei era stata vicina a Jasper Gwyn, scandalosamente vicina, e finì per chiedersi cosa aveva sbagliato in quegli istanti, o cosa non aveva capito. Tornò con la memoria nel buio dello studio, quell’ultima notte, e si ricordò il nulla che era rimasto tra loro, incredula di non averlo saputo attraversare. Ma ancor più ripensò a quella mattina della morte di Tom, alla sua corsa da Jasper Gwyn e a tutto quello che era seguito. Si ricordava lo spavento di tutt’e due, e quella voglia di starsene chiusi lì dentro, insieme, più forte di ogni altra cosa. Si ricordava i propri gesti in cucina, i piedi nudi, il telefono che squillava senza che loro smettessero di parlare, a bassa voce. L’alcol bevuto, i vecchi dischi, le copertine dei libri, la confusione in bagno. E com’era stato facile sdraiarsi accanto a lui, e addormentarsi. Poi l’alba difficile, e lo sguardo atterrito di Jasper Gwyn. Lei che capiva e se ne andava. Quant’era stato più preciso il gesto netto di quella ragazzina. Che odiosa lezione.
Si guardò e su chiese se tutto non si poteva spiegare semplicemente con quel suo corpo, inadatto e sbagliato. Ma non c’era una risposta. Solo tristezze che da tempo non voleva più affrontare. A casa, poi, si vide bella, allo specchio – e viva. Fece quindi, per giorni, l’unico gesto che le sembrò appropriato – attendere.
A_Baricco