il dolore del ritorno

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Parlare della mia famiglia non è tanto semplice; essa è, come tutte le altre comunità, formata dal papà e dalla mamma e dai figli, che si aiutano a vicenda e restano uniti nella gioia e nel dolore. Non c’è una legge che regoli i nostri rapporti, viviamo tutti uniti dall’affetto e dal sentimento morale. La mia famiglia oltre ad essere composta dal papà e dalla mamma comprende gli zii e la nonna. Quando siamo a tavola o a pranzare pensandoci non sembra una famiglia antica. Un tempo il più anziano era il capofamiglia. Nella mia famiglia però chi governa tutto è il mio papà. Egli è un uomo severo e quando dice una cosa bisogna eseguirla senza fare domande. La mia famiglia non è sempre in pace, ma come in tutte le altre avvengono discussioni che si possono definire con il nome di temporale domestico. Questa è un po’ la descrizione della mia famiglia e dei suoi componenti.

Tema “La mia famiglia”. Franco, 13 anni. 7 gennaio 1961

 

Per mano tua

La notte in cui sono arrivato a Carpi non potevo immaginare che in quella piccola città di provincia avrei trovato la mia ispirazione e la mia condanna.
Ero partito da Mirandola, distante quasi venti miglia, per lavorare come precettore. Avevo seguito il mio grande amico Pico quando da Ferrara era rientrato alla sua terra natia. Avendo deciso di recarsi a Firenze, mi aveva voluto raccomandare alla sorella Caterina Pio. La sua proposta mi sembrava provvidenziale, soprattutto dopo gli anni in cui lo studio serrato e le dissolutezze della corte del Duca Ercole non mi avevano dato tregua. A Carpi mi recavo, cercando un po’ di quiete.
Un viaggio terribile, il mio, lungo strade accidentate e in mezzo a una nebbia che si poteva toccare. Avevamo attraversato le valli percorrendo dossi che emergevano da acque putride e io imprecavo a ogni buca per la paura di ribaltarci negli acquitrini. Ero terrorizzato all’idea di compromettere i tesori che viaggiavano con me: Virgilio, il prezioso Aristotele e casse di volumi accumulati durante i miei pellegrinaggi tra Roma e i ducati del nord. Sentendo le ruote sobbalzare per il ciottolato mi ero tranquillizzato; ormai ero prossimo alla meta. Appena sceso dal carro, quasi non ero riuscito a rimanere in piedi per il formicolio alle gambe. Il mio desiderio era di trovare un giaciglio asciutto.
Mi ero trovato in un cortile, poca servitù in giro e qualche uomo armato che piantonava le porte. Buio e nebbia avevano rallentato il nostro viaggio.
Mi avrebbero ricevuto il giorno dopo. Un valletto mi aveva fatto sistemare in foresteria in attesa di trasferirmi al più presto in un luogo più consono.
Dopo aver indossato abiti puliti, ero pronto a coricarmi ma ero talmente affaticato da non riuscire a prendere sonno. Per placare la mia irrequietudine avevo deciso di cercare le cantine. In silenzio avevo attraversato il cortile, guidato da un tenue bagliore che proveniva da una stanza dal lato opposto del cortile.  Probabilmente erano le luci delle cucine e qualcuno stava trafficando nella sala dei fuochi. Era troppo presto per impastare il pane e di certo troppo tardi per le faccende serali.  Dalla finestra potevo vedere una figura sottile che si muoveva con grazia. Stava travasando acqua da un paiolo posto sul focolare a un grosso secchio poggiato sul pavimento. Indossava un guarnello in lino chiaro, di buona fattura. Non pareva una sguattera. Da una trave del soffitto, in fila come soldati impiccati, penzolava una decina di polli spennati appesi per le zampe. Altrettanti attendevano sul tavolo, ancora vestiti del loro piumaggio.
Con disinvolta pacatezza la donna aveva preso un pollo dal tavolo, immergendolo velocemente nel secchio e con destrezza aveva strappato le penne senza alcuno sforzo. Non si era ancora accorta della mia presenza ed ero indeciso se farmi avanti o tornare sui miei passi. Non capivo se fossi più intimorito dall’idea di spaventarla o di interrompere quella danza tanto truce quanto delicata.
– Vieni dentro, la porta è aperta. Fuori c’è troppo umido. –
– Sono Aldo. Aldo Manuzio. Non volevo spaventarti. –
– Nessuno spavento. Così sei Manuzio, il nuovo precettore. Ben arrivato, eravamo in pensiero. Dovevate arrivare per la compieta. Ho quasi finito, siediti vicino alla cucina che il fuoco è alto. Sul tavolo ci sono cacio e ippocrasso, prendine un poco. –
– Mi dispiace di recare disturbo, spero che la Signora non si sia adirata, Pico mi ha raccomandato e non vorrei…-
– Da quando ha perduto il marito, la Signora è sempre adirata – non era riuscita a trattenere un risolino sarcastico – soprattutto quando la fanno aspettare. Adesso è tardi e il palazzo si sveglia all’alba. È conveniente ritirarsi e dormire un pochino. Diambra! Prendi una lucerna e fa’ strada a messer Manuzio. –
Una ragazzina, anche lei ben vestita ma decisamente più ruspante, era arrivata con molta flemma dalla stanza attigua ed era pronta ad obbedire agli ordini. In silenzio mi aveva accompagnato in foresteria ed era tornata lentamente in cucina.
Non potevo immaginare che quella donna intenta a spennare polli fosse proprio lei, Caterina, madre dei miei futuri allievi. Il fratello Pico non faceva che decantarne le virtù, la conoscenza perfetta di greco e latino. Mi aveva parlato della dedizione che lei nutriva per i suoi preziosi codici miniati, passati per leggenda nelle corti d’Europa come una delle più belle collezioni portate in dote in un corredo nuziale.
L’avevo scoperto la mattina dopo, entrando nella biblioteca e vedendola lì, in piedi. La sua esilità era esaltata da una gamurra in fine damasco indaco stretta all’altezza del seno. Dritta e a testa alta, incoronata da una veletta di bisso sui capelli, sembrava una madonna. Teneva per mano i suoi bambini, orgogliosamente. Così fiera che sarebbe stata capace di schiacciarmi con lo sguardo. In quel preciso momento era nata la mia devozione.
Era sufficiente osservarla nella quotidianità per comprendere i suoi tormenti. Giovane vedova che doveva difendere il suo feudo e i diritti dei suoi figli dall’ingordigia dei pretendenti. Raramente avevo incontrato una donna di tale risolutezza.
Caterina non dormiva che poche ore ed era sua abitudine passare le notti nelle cucine. Nel lavoro manuale trovava conforto, quietava il suo temperamento malinconico così provato dalle lotte quotidiane. In queste notti silenziose avevo trovato anch’io il mio sollievo. La raggiungevo e potevamo discorrere liberamente. Per me era il momento più atteso della giornata.
Quando Caterina aveva fatto realizzare dei ferri per cucinare le cialde, deliziosi dolcetti simili a ostie, ero riuscito a farle comprendere la grandezza del mio sogno tipografico.
– Pensa se ogni stampo fosse minuscolo e al posto di questo decoro imprimesse una lettera oppure una parola, di metterne uno accanto all’altro fintanto che si sia scritta una pagina intera! Stampare pagine sarebbe veloce come cuocere le cialde. Pensa come sarebbe poter stampare tutti i testi greci e latini e possedere dei libri che si portano nella scarsella! –
– Sarebbe meraviglioso, ma ti prego, non con quella calligrafia gotica che ti piace tanto, è troppo dura, come le terre dalle quali proviene. Sarebbe così bello se inventassi un modo di scrivere più leggibile, magari anche in lingua volgare. –
Per me non era possibile prenderla sul serio perché le lingue antiche erano la mia unica fede. Lei ne era consapevole, tanto da aver accettato che parlassi correntemente in latino con i suoi figli. Mentre io ero occupato a progettare la mia opera lei pensava a come istituire una biblioteca pubblica. Ne fantasticava da quando era bambina ed era così risoluta da aver ottenuto da Lionello, il marito, un lascito testamentario di quattrocento ducati per la costituzione dell’istituto.
Di giorno era costantemente occupata ma aveva sempre sotto controllo i progressi dei suoi ragazzi. Se la mia attività di studio aveva sottratto troppo tempo all’insegnamento, lei me lo faceva notare con severità. Il mio incarico con Alberto e il piccolo Lionello doveva essere assolto col massimo rigore.
Qualche notte era possibile uscire di soppiatto dal castello e potevamo passeggiare fino al convento di San Nicolò. Era proprio lì che doveva sorgere la sua biblioteca e in un palazzo poco lontano io volevo fondare la mia tipografia. In quegli anni avevo la certezza che tutti i miei desideri si sarebbero avverati. Non volevo ammettere che qualcosa di fatale stava per accadere. Caterina mi nascondeva le sue preoccupazioni, si barcamenava nel tentativo di non farsi scalzare dalla folta schiera di sedicenti eredi che volevano il potere sulla città. Il mio unico pensiero era di perfezionare la mia tecnica tipografica, e trovare collaboratori adeguati all’impresa. Non mi stavo accorgendo di ciò che accadeva a palazzo e mentre io ero chino sui miei codici, si stavano intrecciando trame oscure.
Era arrivata l’estate e la notizia delle sue prossime nozze mi aveva colpito come una stilettata in pieno petto. Avevo smesso di scrivere, di progettare, di studiare, di scendere in cucina di notte. La fama di Rodolfo Gonzaga, il suo promesso, era arrivata anche alle orecchie di un povero istitutore come me. La servitù non mi aveva risparmiato ogni tipo di pettegolezzo su quel balordo che, a detta di tutti, era anche un assassino. Aveva ucciso la prima moglie con le sue mani. Dal mio punto di vista questo non poteva che essere un’unione maledetta. Ero stato nelle Corti più potenti del paese ma le regole non scritte non le avevo mai capite; non ero capace di comprenderne la necessità di questo secondo matrimonio. Ma d’altronde chi ero io? Un letterato senza coscienza del mondo. Un uomo di carta e inchiostro. Caterina invece era una donna di carne e sangue. Ero determinato ad andarmene via al più presto ma mi era mancato il coraggio.
I primogeniti di Caterina per me erano come figli. La loro madre li aveva lasciati a Carpi, affidandoli alle mie cure, come a volerli proteggere. Li avevo trovati bambini e dopo otto anni erano uomini di grande dignità e prestigio, anche grazie alla mia influenza. Erano cresciuti e la mia presenza non era più necessaria. Con grande dolore ero partito per Venezia con la speranza di poter costruire ciò per cui ero nato. Avevo fondato un’Accademia e avevo finalmente iniziato a pubblicare le mie opere. Una famiglia semplice e devota mi aveva restituito la serenità che avevo perduto, ma il pensiero di Caterina non mi aveva mai lasciato. Ero continuamente combattuto tra il desiderio di oblio e la speranza di ricevere sue notizie. Quando avevo smesso di attenderle, erano arrivate.
In questi anni di battaglie ho dovuto seguire un destino già scritto che non mi ha dato scampo. Avrai saputo della morte di Rodolfo durante la battaglia a Fornovo. Sono di nuovo sola e, spero, finalmente libera. Il mio futuro è incerto ma ho ancora dei figli da proteggere. Sono così stanca. Tu lo dicevi sempre che viviamo in tempi tumultuosi e tristi in cui è più comune l’uso delle armi che quello dei libri e solo ora sono in grado di comprenderne appieno il significato. Alberto ti ha destinato le terre e i possedimenti che ti aveva promesso. Se vorrai, torna.Tua Caterina.
Non ho mai risposto.
La notizia del suo assassinio l’avevo ricevuta da Alberto. Assieme alla lettera mi aveva fatto recapitare una copia delle “Epistole di Santa Caterina” che la madre aveva conservato nella sua biblioteca privata. Era stata la mia prima stampa in lingua volgare. Per non usare i caratteri gotici ne avevo fatti incidere dei nuovi più tondi e chiari. Avevo numerato tutte le pagine, recto e verso. Immergendo il viso tra le pagine consunte ho potuto sentire il suo profumo traspirare dalla carta. Sapeva che ero tornato da lei.

Il mondo a rovescio

In un mondo a rovescio le mamme e i papà andrebbero a scuola per imparare mentre i bambini potrebbero anche star fuori a lavorare.

Gli adulti a lezione di com-portamento, di lancio della cartaccia nel cestino, di rispetto delle file e di parcheggio nelle righe.

I piccoli occuperebbero le mattine disegnando a mente libera sui muri scrostati, parlando tra di loro in lingue immaginate di parole travestite. Potrebbero cucinare biscotti glassati per tutti e lanciarsi l’impasto e fare anche i rutti.

Aspetterebbero i genitori all’uscita di scuola, parlando di tutto e di niente e fregandosene di quel che pensa la gente.

Il pomeriggio, ai giardini, i grandi raccoglierebbero foglie secche e semini, giocherebbero a campana e si farebbero il bagno nella fontana.

I compiti a casa sarebbero molto difficili. “Scrivere un temino dove il protagonista sia tuo bambino” ma attenzione, ricorda di coniugare alla terza persona singolare dimenticando la prima persona plurale.

 Questa storia la voglio imparare, e di sera te la voglio raccontare. Perché il mondo a volte puoi anche guardarlo a testa in giù, ma quello che non voglio scordare mai è che io sono io, e tu sei tu.
(Miss Peggy e la lotta alla banale sopravvivenza elementare).

De-menti emotivi

Il demente emotivo (d.e.) non è un individuo sensibile affetto da demenza ma colui che, senza dolo e senza colpa, tende a rimuovere inconsapevolmente determinate emozioni.

 (Demente: dal latino demèntem accusativo di demèns composto della particella de via da, indicante allontanamento, e mens mente.)
 La demenza emotiva presuppone un forte sentimento. I due inseparabili compagni sono legati da un rapporto direttamente proporzionale. Più intenso il sentimento, più grave la demenza.Le emozioni più gettonate dal d.e. sono la rabbia, la tristezza e la gelosia. La demenza emotiva non colpisce proprio tutte le emozioni, e questo permette al d.e. di vivere decorosamente.
Il d.e. gode di una certa simpatia perché solitamente non è piagnone e trova spesso un compromesso. Se ti dice “non c’è problema” è di certo sincero. Il d.e. è un compagno ideale.
 Considerate le premesse si direbbe che tale patologia non debba essere così terribile: nessun rancore dopo un litigio, no ai travasi di bile quando se ne va con un’altra, nessuna lacrima pensando alla morte di Artax mentre attraversa le paludi della tristezza.
Invece no, ti consuma lentamente perché il lasso di tempo che intercorre tra evento che scatena l’emozione e il momento dell’oblio dura qualche giorno, ma l’intensità di ciò che si prova è deflagrante e assoluta. Amplificata.

Il d.e. corre una maratona emozionale che ciclicamente si trasforma in una gara di velocità. Il d.e. non riposa mai.

Gli effetti collaterali della demenza emotiva sono la perdita di autostima, l’incapacità di staccarsi dalle situazioni scatenanti e un inesorabile e precoce invecchiamento della pelle.

Qualche d.e. prova ad addomesticarsi e lo fa scrivendo sul “taccuino delle emozioni” tutto ciò che prova durante i giorni di fase acuta speranzoso di non dimenticare lo strazio, il dolore, il turbamento di quei momenti. Lo fa perché è certo che la prossima volta, di fronte alla persona che ha generato l’emozione, sarà in grado di esprimere il suo disagio, affrontarlo e risolverlo.

Purtroppo è un eterno rincorrersi di prossime volte. All’infinito.

Arrivederci alla prossima…

Solo sul filo

Là in alto, mentre prende confidenza col suo nuovo territorio, il funambolo si sente solo. Se ne vedrà a lungo la sagoma immobile. Aggrappato con le mani alla passerella davanti a questo cavo orizzontale sul quale non osa posare il piede, si crederebbe che egli beva pigramente il sole al tramonto.

Non è così. Egli sta prendendo tempo.

Misura lo spazio, palpa il vuoto, soppesa le distanze, controlla lo stato degli attrezzi, li predispone. Assapora fremendo quella solitudine: sa che, se ce la fa, sarà funambolo.

Vuole allineare alla verticale dei suoi pensieri i suoi dubbi e i suoi timori per issare fino a sé il coraggio che gli resta.

Ma tutto ciò richiede troppo tempo.

Il cavo guadagna terreno, il cielo diventa cupo, ora un centinaio di metri lo separano dalla piattaforma di fronte. Il suolo non è più allo stesso livello, è ancora più basso. Dei gridi giungono dai boschi. La fine del giorno è prossima.

Al culmine della disperazione il funambolo impugna il bilanciere e, sul punto di desistere, passo dopo passo, passa.

E’ il suo primo successo.

Resta là per comprenderlo, con gli occhi posati su quella piattaforma tutta nuova, mentre l’oscurità corre raso terra. Condivide con le cime degli alberi la luce che s’attarda più leggera dell’aria.

Solo sul filo, si circonda di un’allegria aspra e selvaggia, compiendo traversate spensierate e prive di ordine nell’umidità della sera. Appende il bilanciere alla passerella prima di prender posto in cima al palo in seno a un frammento di spazio nero e ghiacciato, per accogliere senza angoscia la notte che viene.

Trattato di funambolismo_Philippe Petit

Mr Gwyn

Rebecca ci mise un po’ a rimettere in moto i pensieri. Lasciò perdere le incombenze che avrebbe dovuto assolvere, annullò tutti gli appuntamenti, lasciò sul tavolo, senza aprirli, i giornali che aveva comprato. Le dava fastidio vedere che le tremavano le mani – era perfino difficile capire se fosse rabbia o una qualche forma di spavento. Squillò il telefono e lei non rispose. Prese la sua roba e se ne uscì.

Sulla strada di casa, si sedette in un posto tranquillo, sui gradini di una chiesa, ai bordi di un piccolo giardino, e si costrinse a ricordare le parole di quella ragazzina. Cercava di capire cosa, di volta in volta, avevano mandato in pezzi. Tante cose, e alcune le sapeva delicate ma anche ferme, come le semplici illusioni non sono. Stranamente, prima che a se stessa pensò a Jasper Gwyn, come quelli che, rialzatisi da una caduta, controllano che non si siano rotti gli occhiali o l’orologio – le cose più fragili. Era arduo capire quanto quella ragazzina l’avesse ferito. Sicuramente aveva infranto una misura che fino a quel momento Jasper Gwyn aveva scelto come norma imprescindibile del suo curioso lavoro. Ma era anche possibile che tanta cura nel porre confini e restrizioni nascondesse in lui l’ultimo desiderio di arrivare al di là di ogni regola, anche solo una volta, e a qualsiasi prezzo – come per arrivare fino in fondo a un suo certo cammino. Dunque era difficile dire se quella ragazzina era stata per lui un colpo mortale o l’approdo a cui da sempre tutti i suoi ritratti avevano mirato. Chissà. Certo quei nove giorni senza metter piede nello studio facevano pensare a un uomo spaventato più che a un uomo arrivato – e il suo rimanere nascosto, poi, con calma ma determinazione. Sono gli animali feriti che si muovono così. Pensò allo studio, alle diciotto Caterina de’ Medici, alla musica di David Barber. Che peccato, si disse. Che immenso peccato se tutto dovesse finire qui.

Tornò verso casa, camminando lentamente, e solo allora le venne da pensare a sé, e a controllare le sue, di ferite. Per quanto la disgustasse ammetterlo, quella ragazzina le aveva insegnato qualcosa che la umiliava, e che aveva a che fare con il coraggio, o la spudoratezza, chissà. Cercò di ricordare i momenti in cui lei era stata vicina a Jasper Gwyn, scandalosamente vicina, e finì per chiedersi cosa aveva sbagliato in quegli istanti, o cosa non aveva capito. Tornò con la memoria nel buio dello studio, quell’ultima notte, e si ricordò il nulla che era rimasto tra loro, incredula di non averlo saputo attraversare. Ma ancor più ripensò a quella mattina della morte di Tom, alla sua corsa da Jasper Gwyn e a tutto quello che era seguito. Si ricordava lo spavento di tutt’e due, e quella voglia di starsene chiusi lì dentro, insieme, più forte di ogni altra cosa. Si ricordava i propri gesti in cucina, i piedi nudi, il telefono che squillava senza che loro smettessero di parlare, a bassa voce. L’alcol bevuto, i vecchi dischi, le copertine dei libri, la confusione in bagno. E com’era stato facile sdraiarsi accanto a lui, e addormentarsi. Poi l’alba difficile, e lo sguardo atterrito di Jasper Gwyn. Lei che capiva e se ne andava. Quant’era stato più preciso il gesto netto di quella ragazzina. Che odiosa lezione.

Si guardò e su chiese se tutto non si poteva spiegare semplicemente con quel suo corpo, inadatto e sbagliato. Ma non c’era una risposta. Solo tristezze che da tempo non voleva più affrontare. A casa, poi, si vide bella, allo specchio – e viva. Fece quindi, per giorni, l’unico gesto che le sembrò appropriato – attendere.

A_Baricco

Dell’amore e di altre Memoli

«Posso chiederti una cosa?»
«Certo, dimmi tutto.»
«Ma tu hai paura della morte, mamma?»

Uno di quei momenti in cui vorresti avere un supercomputer al posto del cervello, che sia  in grado di valutare ogni risposta possibile (e tutte le relative conseguenze) in un nanosecondo. Invece ti ritrovi con uno Spectrum 48k che va ancora col mangianastri.

Tre secondi di panico. Rischio. Vada per la sincerità.

«Per adesso no, la morte fa parte della vita. Non mi fa paura. E’ un ciclo, come per gli alberi.»

Attendo. Scambio di sguardi.

«Come in scienze. Nasci, cresci, ti riproduci e muori.»

«Esatto! Proprio così.»

Volutamente non mi soffermo sull’argomento riproduzione. Troppa roba tutta insieme. Rischio di far partire il viaggione su eros e thanatos e non mi sembra il momento giusto per parlare di dissidio cosmico. La mia segreta speranza è di far virare il discorso dal filosofico-metafisico allo scientifico. Almeno ho qualche possibilità di uscirne mantenendo la mia credibilità genitoriale.

«Ma…» c’è sempre un “ma”, e i “ma” ti fregano più dei “se”.

«Ma?» Lo dico con un filo di voce, attendo la mazzata.

«Ma tu muori? Non voglio che tu muori.»

L’occhio si umetta. La boccuccia tremolante si increspa verso il basso. Sta per piangere. Sono finita ma non voglio raccontare balle.

«Tesoro, prima o poi morirò anch’io, spero il più tardi possibile. Però vedi come sono tranquilla?»

«Perché sei giovane? Solo i vecchi muoiono vero?»

Sono all’angolo ma decido di tentare un’azione di recupero.

«Purtroppo muoiono anche i giovani.»

«Di infarto?»

Sudo.

«Difficile che muoiano d’infarto. Ma può capitare. Così come possono capitare gli incidenti.»

Lei pensa.

«Bisogna sempre mettersi le cinture di sicurezza vero mamma? Però, io ho paura che muore qualcuno.»

Idea.

«Sai che in Messico fanno una bellissima festa per i morti? Ci si veste da scheletri tutti colorati, si balla e si canta». (Ho dovuto semplificare un pochino…)

«Sui morti?»

«Ma no!! Si fa una grande festa per ricordarli e salutare le loro anime. Per loro, non su di loro!»

«Ah. E sono tutti contenti e non hanno paura?»

«No, non hanno paura, perché sanno che la paura è pericolosa e se una cosa esiste è inutile far finta che non lo sia.»

«Come Voldemort?»

«Sì!! Come Voldemort.»

«Mamma  adesso ho sonno e dormo. E tanto se muori faccio come Memoli, che piange e le sue lacrime ti guariscono.»

I miei neuroni prima si sciolgono poi si rilassano e infine scappano a fare un ballo di gruppo sulle note di disco samba.
Per stasera me la sono cavata.Anelo al giorno in cui arriverà da me con quesiti del tipo:«Mamma, ma tu lo sai chi era Spargapise?»
Una domanda decisamente più semplice di quella di stasera.

In piedi

I miei piedi trottano veloci, a volte si distraggono ma sanno sempre dove vogliono andare.

I miei piedi piangono, se li obblighi, e sorridono quando si costringono in scarpe alte e rosse.

Sono freddi e ti vogliono toccare, ma per sfiorarli devi chiedere il permesso.

I miei piedi sono permalosi, non li puoi criticare. Si rifiutano di essere leziosi ma vogliono che tu li aduli.

Camminano dietro di te, aspettando di viaggiare al tuo fianco. Non si stancano.

I miei piedi si consumano nell’attesa.

Jeanette

Jeanette ha smesso di tormentare lo strofinaccio. Guarda lontano nel vuoto verso la luce grigiastra che entra dalla finestra. Da giovane aveva un’aria sfrontata. Somigliava all’attrice Suzy Delair. Il tempo modifica perfino l’anima dei volti. Dico, non posso neanche bermi un caffè? Lei alza le spalle. Mi chiedo che tipo di giornata si prospetta. Un tempo non prestavo la minima attenzione a questo incessante succedersi del giorno e della notte, non sapevo neanche se era mattina, pomeriggio o che cosa. Andavo al ministero, andavo in banca, andavo a donne, senza mai preoccuparmi delle possibili conseguenze. Mi capita ancora di essere sufficientemente su di giri per andare un po’ a donne, ma da una certa età in poi i preliminari sono stancanti. Jeanette dice, si può anche scegliere di farsi cremare senza far disperdere le proprie ceneri. Non raccolgo nemmeno. Torno alla mia finta attività virtuale. Io non sono contrario a imparare cose nuove, ma a che scopo? Per stimolare le cellule cerebrali, dice mia figlia. E questo cambierà la mia visione del mondo? Ci sono già abbastanza pollini e schifezze nell’aria senza che uno ci metta anche la polvere di morto, non mi sembra il caso, dice Jeanette. Chiederò a qualcun altro, dico io. A Odile, o a Robert. O a Jean, ma temo che quell’idiota se ne andrà prima di me. Non l’ho trovato in gran forma martedì scorso. Gettatemi alle Braive. Andrò a raggiungere mio padre. Tu assicurati solo che non mi infliggano nessuna cerimonia, niente servizio funebre o altre manfrine, parole benedette e pacificanti. Magari poi muoio anch’io prima di te, dice Jeanette. – No, No, tu sei tosta. – Ernest, se muoio prima di te voglio che ci sia una benedizione e che tu racconti come mi hai chiesto di sposarti a Roquebrune. Povera Jeanette. In un tempo ormai ridotto a materia indistinta, le avevo chiesto la mano attraverso lo spioncino di una segreta medioevale in cui l’avevo rinchiusa. Se sapesse a che punto Roquebrune abbia perso di significato per me. A che punto quel passato si sia dissolto e volatilizzato. Due persone vivono fianco a fianco e ogni giorno la loro immaginazione li allontana in modo sempre più definitivo. Le donne, nel loro intimo, si costruiscono palazzi incantati. Tu sei lì dentro da qualche parte mummificato e non lo sai. Nessuna sregolatezza, nessuna mancanza di scrupoli, nessuna crudeltà sono considerate reali. Sulla soglia dell’eternità, ci toccherà raccontare una storia di giovincelli. Tutto è fraintendimento, e torpore. – Non contarci Jeanette. Per fortuna me ne andrò prima di te. E tu assisterai alla mia cremazione.

Jasmina Reza_Felici i felici