Mancarsi

C’era una donna – questa la storia – che amava il suo uomo in modo assoluto. Gli dedicava la vita e ne era felice. Si occupava di lui senza riserve, e non le importava di non avere altro da fare. Anzi, sentiva quasi come un disturbo qualsiasi occupazione o impegno la distogliesse anche pochissimo dal compito che s’era scelta.

Quando erano in compagnia di amici, bastava che lui aprisse bocca su un argomento qualunque perché lei lo guardasse con l’incanto di una ragazzina che, dopo tanto tramare, finalmente si ritrova nella stessa stanza col più bello della scuola. Ammirava il suo punto di vista sul mondo, e la grazia con cui lo proponeva. 

Senza di lui, non usciva neanche per fare la spesa. Lo seguiva dappertutto, ma era molto attenta a non invadere i suoi spazi. E quando un impegno di lavoro lo tratteneva fino a tardi, si faceva trovare sveglia ad aspettarlo. Per sé non chiedeva niente, le bastava stargli accanto.

Poi un giorno lui s’era ammalato ed era morto.

Tutti avevano pensato che lei non avrebbe sopportato la mancanza e si sarebbe lasciata andare, astenendosi dal vivere per seguirlo al più presto. Lo avevano pensato perché era comprensibile pensarlo e perché, per quanto disgraziato, è un bel pensiero.

Invece lei era rinata. Aveva ripreso ad uscire, viaggiare, riallacciare contatti, fare jogging (questa dello jogging era una probabile aggiunta dei remake successivi). Gli amici la incontravano dappertutto, al cinema, ai concerti, nei bei negozi del centro, e provavano un certo imbarazzo nel vederla così luminosa, così disinvolta nell’andare avanti.

Non che lui non le mancasse. Forse però le era mancata di più la sua vita. E adesso che l’aveva ritrovata, se la stava riprendendo.

Era singolare, pensava Nicola, come questa storia trovasse sempre lo stesso silenzio rispettoso (oppure omertoso, non si capiva) ad accoglierla. Come se nessuno avesse le carte in regola per biasimare quella donna.

“Era proprio necessario, – questa la domanda che tutti avrebbero voluto farle, – aspettare la morte per liberarti di un rapporto che ti stava stretto? Se sapevi (perché via, non potevi non saperlo) che non era più quella la vita che volevi, non sarebbe stato più onesto prendere prima la tua strada?”

Più che una domanda, una critica; che però veniva taciuta con la stessa spontaneità con cui montava dentro.

Era in quel silenzio intimidito e colpevole, in quella coda di paglia che censurava sul nascere ogni intento moralistico, che Nicola si riconosceva di più. Come tanti, anche lui si guardava bene dal giudicare, perché anche lui, come tanti, nel profondo sapeva che quello che soprattutto fa la persona che ami è occupare dello spazio, stare al mondo: diventare il tuo spazio e il tuo mondo. E il peggio è che ti può capitare, quando ti abitui a vivere in un mondo ridotto a una persona soltanto, è di pensare di avere abbastanza mondo per essere felice, addirittura diventarlo, e così raccontarti che nel resto del mondo, tutto quell’altro mondo che non è lei, non vuoi neanche più andarci; infatti non ci vai, e dopo un po’ ti senti persino fiero di aver smesso di frequentarlo, quel mondo così vasto, anche se poi quando viene a girare dalle tue parti o lo vedi dalla finestra ti sale un po’ il magone, e te ne torni dentro mordendoti le labbra.

Molto prima che l’incidente lo riconsegnasse a una vita che non si era mai permesso e di cui poteva fare quello che voleva, finalmente, Nicola aveva conosciuto il rimpianto della solitudine, la privazione di una libertà con cui avrebbe voluto riempire i suoi giorni (non per farci qualcosa, solo averla) e invece assaporava nei pochi, insufficienti spazi che riusciva a ritagliarsi.

Per questo gli sembrava perfettamente comprensibile – come tutti quelli che come lui tenevano la bocca chiusa su quella storia – che la donna del racconto avesse ritrovato la sua vita nella morte dell’uomo che amava.

Ed è per questo che oggi, per quanto gli costi ammetterlo, non riesce a soffrire completamente, né si sente sbagliato nell’uscire ogni giorno di casa con la speranza d’innamorarsi ancora, però stando bene attento a tenersi stretto il resto del mondo, questa volta.

Diego De Silva

Due lanterne

Per raggiungerti, ha spiccato frettolosamente il volo. Una raffica di tramontana l’ha scagliata contro un filo a mezz’aria, ferreo e ingannevole confine tra due cieli.

Forse, se fosse stata più elegante lui stesso si sarebbe inchinato per lasciarle il passo.

Se fosse stata più leggera, sarebbe scivolata lascivamente, come un’abile funambola.

Se fosse stata più caparbia, avrebbe preso la rincorsa e sfidato l’ostacolo.

Se avesse avuto il coraggio di parlare, forse, l’avresti ascoltata. E aspettata.

Lentamente si è alzata ed è inciampata nei suoi tentennamenti. E’ caduta nel silenzio a testa in giù.

Si è arresa alla terra umida rotolando su se stessa, schiacciata dal suo calore. Abbandonata.

Elogio

Eccole, compagne instancabili, che per tanti anni hanno assolto il loro compito, l’una tenendo fermo il foglio, l’altra moltiplicando sulla pagina bianca quei piccoli segni scuri, fitti, persistenti. Grazie ad esse l’uomo prende contatto con la dura consistenza del pensiero, arriva a forzarne il blocco. Sono le mani a imporre una forma, un contorno, e, nella scrittura, uno stile.

Le si potrebbe dire animate. Servitrici? Può darsi. Ma dotate di una natura energica e libera, di una fisionomia – volti senza occhi e senza voce, ma vedenti e parlanti. Ci sono ciechi che con l’andar del tempo acquistano una tale finezza di tatto per cui sono capaci di distinguere, sfiorandole, le figure di un mazzo di carte, che riconoscono attraverso lo spessore infinitesimo dell’immagine stampata. Anche i vedenti, però, hanno bisogno delle mani per vedere, per completare attraverso il tatto e la presa la percezione delle apparenze. Le attitudini proprie delle mani sono scritte nella loro linea e nel loro disegno: vi sono mani destinate per scioltezza all’analisi, vi sono le dita lunghe e agili del raisonneur, vi sono mani profetiche cariche di fluidi, mani spirituali cui l’inerzia stessa conferisce grazia e levità, mani fatte per la tenerezza. La fisiognomica, a suo tempo assiduamente praticata dagli artisti, si sarebbe avvantaggiata arricchendosi di un capitolo sulle mani. Il volto umano è soprattutto un intarsio di organi di ricezione. 

La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. In stato di quiete, non è un utensile senz’anima, un utensile abbandonato sul tavolo o lasciato ricadere lungo il corpo: in essa permangono, in fase di riflessione, l’istinto e la volontà di azione, e non occorre soffermarsi a lungo per intuire il gesto che si appresta a compiere.

Henri Focillon_Elogio della mano