La notte in cui sono arrivato a Carpi non potevo immaginare che in quella piccola città di provincia avrei trovato la mia ispirazione e la mia condanna.
Ero partito da Mirandola, distante quasi venti miglia, per lavorare come precettore. Avevo seguito il mio grande amico Pico quando da Ferrara era rientrato alla sua terra natia. Avendo deciso di recarsi a Firenze, mi aveva voluto raccomandare alla sorella Caterina Pio. La sua proposta mi sembrava provvidenziale, soprattutto dopo gli anni in cui lo studio serrato e le dissolutezze della corte del Duca Ercole non mi avevano dato tregua. A Carpi mi recavo, cercando un po’ di quiete.
Un viaggio terribile, il mio, lungo strade accidentate e in mezzo a una nebbia che si poteva toccare. Avevamo attraversato le valli percorrendo dossi che emergevano da acque putride e io imprecavo a ogni buca per la paura di ribaltarci negli acquitrini. Ero terrorizzato all’idea di compromettere i tesori che viaggiavano con me: Virgilio, il prezioso Aristotele e casse di volumi accumulati durante i miei pellegrinaggi tra Roma e i ducati del nord. Sentendo le ruote sobbalzare per il ciottolato mi ero tranquillizzato; ormai ero prossimo alla meta. Appena sceso dal carro, quasi non ero riuscito a rimanere in piedi per il formicolio alle gambe. Il mio desiderio era di trovare un giaciglio asciutto.
Mi ero trovato in un cortile, poca servitù in giro e qualche uomo armato che piantonava le porte. Buio e nebbia avevano rallentato il nostro viaggio.
Mi avrebbero ricevuto il giorno dopo. Un valletto mi aveva fatto sistemare in foresteria in attesa di trasferirmi al più presto in un luogo più consono.
Dopo aver indossato abiti puliti, ero pronto a coricarmi ma ero talmente affaticato da non riuscire a prendere sonno. Per placare la mia irrequietudine avevo deciso di cercare le cantine. In silenzio avevo attraversato il cortile, guidato da un tenue bagliore che proveniva da una stanza dal lato opposto del cortile. Probabilmente erano le luci delle cucine e qualcuno stava trafficando nella sala dei fuochi. Era troppo presto per impastare il pane e di certo troppo tardi per le faccende serali. Dalla finestra potevo vedere una figura sottile che si muoveva con grazia. Stava travasando acqua da un paiolo posto sul focolare a un grosso secchio poggiato sul pavimento. Indossava un guarnello in lino chiaro, di buona fattura. Non pareva una sguattera. Da una trave del soffitto, in fila come soldati impiccati, penzolava una decina di polli spennati appesi per le zampe. Altrettanti attendevano sul tavolo, ancora vestiti del loro piumaggio.
Con disinvolta pacatezza la donna aveva preso un pollo dal tavolo, immergendolo velocemente nel secchio e con destrezza aveva strappato le penne senza alcuno sforzo. Non si era ancora accorta della mia presenza ed ero indeciso se farmi avanti o tornare sui miei passi. Non capivo se fossi più intimorito dall’idea di spaventarla o di interrompere quella danza tanto truce quanto delicata.
– Vieni dentro, la porta è aperta. Fuori c’è troppo umido. –
– Sono Aldo. Aldo Manuzio. Non volevo spaventarti. –
– Nessuno spavento. Così sei Manuzio, il nuovo precettore. Ben arrivato, eravamo in pensiero. Dovevate arrivare per la compieta. Ho quasi finito, siediti vicino alla cucina che il fuoco è alto. Sul tavolo ci sono cacio e ippocrasso, prendine un poco. –
– Mi dispiace di recare disturbo, spero che la Signora non si sia adirata, Pico mi ha raccomandato e non vorrei…-
– Da quando ha perduto il marito, la Signora è sempre adirata – non era riuscita a trattenere un risolino sarcastico – soprattutto quando la fanno aspettare. Adesso è tardi e il palazzo si sveglia all’alba. È conveniente ritirarsi e dormire un pochino. Diambra! Prendi una lucerna e fa’ strada a messer Manuzio. –
Una ragazzina, anche lei ben vestita ma decisamente più ruspante, era arrivata con molta flemma dalla stanza attigua ed era pronta ad obbedire agli ordini. In silenzio mi aveva accompagnato in foresteria ed era tornata lentamente in cucina.
Non potevo immaginare che quella donna intenta a spennare polli fosse proprio lei, Caterina, madre dei miei futuri allievi. Il fratello Pico non faceva che decantarne le virtù, la conoscenza perfetta di greco e latino. Mi aveva parlato della dedizione che lei nutriva per i suoi preziosi codici miniati, passati per leggenda nelle corti d’Europa come una delle più belle collezioni portate in dote in un corredo nuziale.
L’avevo scoperto la mattina dopo, entrando nella biblioteca e vedendola lì, in piedi. La sua esilità era esaltata da una gamurra in fine damasco indaco stretta all’altezza del seno. Dritta e a testa alta, incoronata da una veletta di bisso sui capelli, sembrava una madonna. Teneva per mano i suoi bambini, orgogliosamente. Così fiera che sarebbe stata capace di schiacciarmi con lo sguardo. In quel preciso momento era nata la mia devozione.
Era sufficiente osservarla nella quotidianità per comprendere i suoi tormenti. Giovane vedova che doveva difendere il suo feudo e i diritti dei suoi figli dall’ingordigia dei pretendenti. Raramente avevo incontrato una donna di tale risolutezza.
Caterina non dormiva che poche ore ed era sua abitudine passare le notti nelle cucine. Nel lavoro manuale trovava conforto, quietava il suo temperamento malinconico così provato dalle lotte quotidiane. In queste notti silenziose avevo trovato anch’io il mio sollievo. La raggiungevo e potevamo discorrere liberamente. Per me era il momento più atteso della giornata.
Quando Caterina aveva fatto realizzare dei ferri per cucinare le cialde, deliziosi dolcetti simili a ostie, ero riuscito a farle comprendere la grandezza del mio sogno tipografico.
– Pensa se ogni stampo fosse minuscolo e al posto di questo decoro imprimesse una lettera oppure una parola, di metterne uno accanto all’altro fintanto che si sia scritta una pagina intera! Stampare pagine sarebbe veloce come cuocere le cialde. Pensa come sarebbe poter stampare tutti i testi greci e latini e possedere dei libri che si portano nella scarsella! –
– Sarebbe meraviglioso, ma ti prego, non con quella calligrafia gotica che ti piace tanto, è troppo dura, come le terre dalle quali proviene. Sarebbe così bello se inventassi un modo di scrivere più leggibile, magari anche in lingua volgare. –
Per me non era possibile prenderla sul serio perché le lingue antiche erano la mia unica fede. Lei ne era consapevole, tanto da aver accettato che parlassi correntemente in latino con i suoi figli. Mentre io ero occupato a progettare la mia opera lei pensava a come istituire una biblioteca pubblica. Ne fantasticava da quando era bambina ed era così risoluta da aver ottenuto da Lionello, il marito, un lascito testamentario di quattrocento ducati per la costituzione dell’istituto.
Di giorno era costantemente occupata ma aveva sempre sotto controllo i progressi dei suoi ragazzi. Se la mia attività di studio aveva sottratto troppo tempo all’insegnamento, lei me lo faceva notare con severità. Il mio incarico con Alberto e il piccolo Lionello doveva essere assolto col massimo rigore.
Qualche notte era possibile uscire di soppiatto dal castello e potevamo passeggiare fino al convento di San Nicolò. Era proprio lì che doveva sorgere la sua biblioteca e in un palazzo poco lontano io volevo fondare la mia tipografia. In quegli anni avevo la certezza che tutti i miei desideri si sarebbero avverati. Non volevo ammettere che qualcosa di fatale stava per accadere. Caterina mi nascondeva le sue preoccupazioni, si barcamenava nel tentativo di non farsi scalzare dalla folta schiera di sedicenti eredi che volevano il potere sulla città. Il mio unico pensiero era di perfezionare la mia tecnica tipografica, e trovare collaboratori adeguati all’impresa. Non mi stavo accorgendo di ciò che accadeva a palazzo e mentre io ero chino sui miei codici, si stavano intrecciando trame oscure.
Era arrivata l’estate e la notizia delle sue prossime nozze mi aveva colpito come una stilettata in pieno petto. Avevo smesso di scrivere, di progettare, di studiare, di scendere in cucina di notte. La fama di Rodolfo Gonzaga, il suo promesso, era arrivata anche alle orecchie di un povero istitutore come me. La servitù non mi aveva risparmiato ogni tipo di pettegolezzo su quel balordo che, a detta di tutti, era anche un assassino. Aveva ucciso la prima moglie con le sue mani. Dal mio punto di vista questo non poteva che essere un’unione maledetta. Ero stato nelle Corti più potenti del paese ma le regole non scritte non le avevo mai capite; non ero capace di comprenderne la necessità di questo secondo matrimonio. Ma d’altronde chi ero io? Un letterato senza coscienza del mondo. Un uomo di carta e inchiostro. Caterina invece era una donna di carne e sangue. Ero determinato ad andarmene via al più presto ma mi era mancato il coraggio.
I primogeniti di Caterina per me erano come figli. La loro madre li aveva lasciati a Carpi, affidandoli alle mie cure, come a volerli proteggere. Li avevo trovati bambini e dopo otto anni erano uomini di grande dignità e prestigio, anche grazie alla mia influenza. Erano cresciuti e la mia presenza non era più necessaria. Con grande dolore ero partito per Venezia con la speranza di poter costruire ciò per cui ero nato. Avevo fondato un’Accademia e avevo finalmente iniziato a pubblicare le mie opere. Una famiglia semplice e devota mi aveva restituito la serenità che avevo perduto, ma il pensiero di Caterina non mi aveva mai lasciato. Ero continuamente combattuto tra il desiderio di oblio e la speranza di ricevere sue notizie. Quando avevo smesso di attenderle, erano arrivate.
In questi anni di battaglie ho dovuto seguire un destino già scritto che non mi ha dato scampo. Avrai saputo della morte di Rodolfo durante la battaglia a Fornovo. Sono di nuovo sola e, spero, finalmente libera. Il mio futuro è incerto ma ho ancora dei figli da proteggere. Sono così stanca. Tu lo dicevi sempre che viviamo in tempi tumultuosi e tristi in cui è più comune l’uso delle armi che quello dei libri e solo ora sono in grado di comprenderne appieno il significato. Alberto ti ha destinato le terre e i possedimenti che ti aveva promesso. Se vorrai, torna.Tua Caterina.
Non ho mai risposto.
La notizia del suo assassinio l’avevo ricevuta da Alberto. Assieme alla lettera mi aveva fatto recapitare una copia delle “Epistole di Santa Caterina” che la madre aveva conservato nella sua biblioteca privata. Era stata la mia prima stampa in lingua volgare. Per non usare i caratteri gotici ne avevo fatti incidere dei nuovi più tondi e chiari. Avevo numerato tutte le pagine, recto e verso. Immergendo il viso tra le pagine consunte ho potuto sentire il suo profumo traspirare dalla carta. Sapeva che ero tornato da lei.
Miss
De-menti emotivi
Il demente emotivo (d.e.) non è un individuo sensibile affetto da demenza ma colui che, senza dolo e senza colpa, tende a rimuovere inconsapevolmente determinate emozioni.
Il d.e. corre una maratona emozionale che ciclicamente si trasforma in una gara di velocità. Il d.e. non riposa mai.
Gli effetti collaterali della demenza emotiva sono la perdita di autostima, l’incapacità di staccarsi dalle situazioni scatenanti e un inesorabile e precoce invecchiamento della pelle.
Qualche d.e. prova ad addomesticarsi e lo fa scrivendo sul “taccuino delle emozioni” tutto ciò che prova durante i giorni di fase acuta speranzoso di non dimenticare lo strazio, il dolore, il turbamento di quei momenti. Lo fa perché è certo che la prossima volta, di fronte alla persona che ha generato l’emozione, sarà in grado di esprimere il suo disagio, affrontarlo e risolverlo.
Purtroppo è un eterno rincorrersi di prossime volte. All’infinito.
Arrivederci alla prossima…
In piedi
I miei piedi trottano veloci, a volte si distraggono ma sanno sempre dove vogliono andare.
I miei piedi piangono, se li obblighi, e sorridono quando si costringono in scarpe alte e rosse.
Sono freddi e ti vogliono toccare, ma per sfiorarli devi chiedere il permesso.
I miei piedi sono permalosi, non li puoi criticare. Si rifiutano di essere leziosi ma vogliono che tu li aduli.
Camminano dietro di te, aspettando di viaggiare al tuo fianco. Non si stancano.
I miei piedi si consumano nell’attesa.
Due lanterne
Per raggiungerti, ha spiccato frettolosamente il volo. Una raffica di tramontana l’ha scagliata contro un filo a mezz’aria, ferreo e ingannevole confine tra due cieli.
Forse, se fosse stata più elegante lui stesso si sarebbe inchinato per lasciarle il passo.
Se fosse stata più leggera, sarebbe scivolata lascivamente, come un’abile funambola.
Se fosse stata più caparbia, avrebbe preso la rincorsa e sfidato l’ostacolo.
Se avesse avuto il coraggio di parlare, forse, l’avresti ascoltata. E aspettata.
Lentamente si è alzata ed è inciampata nei suoi tentennamenti. E’ caduta nel silenzio a testa in giù.
Si è arresa alla terra umida rotolando su se stessa, schiacciata dal suo calore. Abbandonata.