Solo sul filo

Là in alto, mentre prende confidenza col suo nuovo territorio, il funambolo si sente solo. Se ne vedrà a lungo la sagoma immobile. Aggrappato con le mani alla passerella davanti a questo cavo orizzontale sul quale non osa posare il piede, si crederebbe che egli beva pigramente il sole al tramonto.

Non è così. Egli sta prendendo tempo.

Misura lo spazio, palpa il vuoto, soppesa le distanze, controlla lo stato degli attrezzi, li predispone. Assapora fremendo quella solitudine: sa che, se ce la fa, sarà funambolo.

Vuole allineare alla verticale dei suoi pensieri i suoi dubbi e i suoi timori per issare fino a sé il coraggio che gli resta.

Ma tutto ciò richiede troppo tempo.

Il cavo guadagna terreno, il cielo diventa cupo, ora un centinaio di metri lo separano dalla piattaforma di fronte. Il suolo non è più allo stesso livello, è ancora più basso. Dei gridi giungono dai boschi. La fine del giorno è prossima.

Al culmine della disperazione il funambolo impugna il bilanciere e, sul punto di desistere, passo dopo passo, passa.

E’ il suo primo successo.

Resta là per comprenderlo, con gli occhi posati su quella piattaforma tutta nuova, mentre l’oscurità corre raso terra. Condivide con le cime degli alberi la luce che s’attarda più leggera dell’aria.

Solo sul filo, si circonda di un’allegria aspra e selvaggia, compiendo traversate spensierate e prive di ordine nell’umidità della sera. Appende il bilanciere alla passerella prima di prender posto in cima al palo in seno a un frammento di spazio nero e ghiacciato, per accogliere senza angoscia la notte che viene.

Trattato di funambolismo_Philippe Petit

Mr Gwyn

Rebecca ci mise un po’ a rimettere in moto i pensieri. Lasciò perdere le incombenze che avrebbe dovuto assolvere, annullò tutti gli appuntamenti, lasciò sul tavolo, senza aprirli, i giornali che aveva comprato. Le dava fastidio vedere che le tremavano le mani – era perfino difficile capire se fosse rabbia o una qualche forma di spavento. Squillò il telefono e lei non rispose. Prese la sua roba e se ne uscì.

Sulla strada di casa, si sedette in un posto tranquillo, sui gradini di una chiesa, ai bordi di un piccolo giardino, e si costrinse a ricordare le parole di quella ragazzina. Cercava di capire cosa, di volta in volta, avevano mandato in pezzi. Tante cose, e alcune le sapeva delicate ma anche ferme, come le semplici illusioni non sono. Stranamente, prima che a se stessa pensò a Jasper Gwyn, come quelli che, rialzatisi da una caduta, controllano che non si siano rotti gli occhiali o l’orologio – le cose più fragili. Era arduo capire quanto quella ragazzina l’avesse ferito. Sicuramente aveva infranto una misura che fino a quel momento Jasper Gwyn aveva scelto come norma imprescindibile del suo curioso lavoro. Ma era anche possibile che tanta cura nel porre confini e restrizioni nascondesse in lui l’ultimo desiderio di arrivare al di là di ogni regola, anche solo una volta, e a qualsiasi prezzo – come per arrivare fino in fondo a un suo certo cammino. Dunque era difficile dire se quella ragazzina era stata per lui un colpo mortale o l’approdo a cui da sempre tutti i suoi ritratti avevano mirato. Chissà. Certo quei nove giorni senza metter piede nello studio facevano pensare a un uomo spaventato più che a un uomo arrivato – e il suo rimanere nascosto, poi, con calma ma determinazione. Sono gli animali feriti che si muovono così. Pensò allo studio, alle diciotto Caterina de’ Medici, alla musica di David Barber. Che peccato, si disse. Che immenso peccato se tutto dovesse finire qui.

Tornò verso casa, camminando lentamente, e solo allora le venne da pensare a sé, e a controllare le sue, di ferite. Per quanto la disgustasse ammetterlo, quella ragazzina le aveva insegnato qualcosa che la umiliava, e che aveva a che fare con il coraggio, o la spudoratezza, chissà. Cercò di ricordare i momenti in cui lei era stata vicina a Jasper Gwyn, scandalosamente vicina, e finì per chiedersi cosa aveva sbagliato in quegli istanti, o cosa non aveva capito. Tornò con la memoria nel buio dello studio, quell’ultima notte, e si ricordò il nulla che era rimasto tra loro, incredula di non averlo saputo attraversare. Ma ancor più ripensò a quella mattina della morte di Tom, alla sua corsa da Jasper Gwyn e a tutto quello che era seguito. Si ricordava lo spavento di tutt’e due, e quella voglia di starsene chiusi lì dentro, insieme, più forte di ogni altra cosa. Si ricordava i propri gesti in cucina, i piedi nudi, il telefono che squillava senza che loro smettessero di parlare, a bassa voce. L’alcol bevuto, i vecchi dischi, le copertine dei libri, la confusione in bagno. E com’era stato facile sdraiarsi accanto a lui, e addormentarsi. Poi l’alba difficile, e lo sguardo atterrito di Jasper Gwyn. Lei che capiva e se ne andava. Quant’era stato più preciso il gesto netto di quella ragazzina. Che odiosa lezione.

Si guardò e su chiese se tutto non si poteva spiegare semplicemente con quel suo corpo, inadatto e sbagliato. Ma non c’era una risposta. Solo tristezze che da tempo non voleva più affrontare. A casa, poi, si vide bella, allo specchio – e viva. Fece quindi, per giorni, l’unico gesto che le sembrò appropriato – attendere.

A_Baricco

Jeanette

Jeanette ha smesso di tormentare lo strofinaccio. Guarda lontano nel vuoto verso la luce grigiastra che entra dalla finestra. Da giovane aveva un’aria sfrontata. Somigliava all’attrice Suzy Delair. Il tempo modifica perfino l’anima dei volti. Dico, non posso neanche bermi un caffè? Lei alza le spalle. Mi chiedo che tipo di giornata si prospetta. Un tempo non prestavo la minima attenzione a questo incessante succedersi del giorno e della notte, non sapevo neanche se era mattina, pomeriggio o che cosa. Andavo al ministero, andavo in banca, andavo a donne, senza mai preoccuparmi delle possibili conseguenze. Mi capita ancora di essere sufficientemente su di giri per andare un po’ a donne, ma da una certa età in poi i preliminari sono stancanti. Jeanette dice, si può anche scegliere di farsi cremare senza far disperdere le proprie ceneri. Non raccolgo nemmeno. Torno alla mia finta attività virtuale. Io non sono contrario a imparare cose nuove, ma a che scopo? Per stimolare le cellule cerebrali, dice mia figlia. E questo cambierà la mia visione del mondo? Ci sono già abbastanza pollini e schifezze nell’aria senza che uno ci metta anche la polvere di morto, non mi sembra il caso, dice Jeanette. Chiederò a qualcun altro, dico io. A Odile, o a Robert. O a Jean, ma temo che quell’idiota se ne andrà prima di me. Non l’ho trovato in gran forma martedì scorso. Gettatemi alle Braive. Andrò a raggiungere mio padre. Tu assicurati solo che non mi infliggano nessuna cerimonia, niente servizio funebre o altre manfrine, parole benedette e pacificanti. Magari poi muoio anch’io prima di te, dice Jeanette. – No, No, tu sei tosta. – Ernest, se muoio prima di te voglio che ci sia una benedizione e che tu racconti come mi hai chiesto di sposarti a Roquebrune. Povera Jeanette. In un tempo ormai ridotto a materia indistinta, le avevo chiesto la mano attraverso lo spioncino di una segreta medioevale in cui l’avevo rinchiusa. Se sapesse a che punto Roquebrune abbia perso di significato per me. A che punto quel passato si sia dissolto e volatilizzato. Due persone vivono fianco a fianco e ogni giorno la loro immaginazione li allontana in modo sempre più definitivo. Le donne, nel loro intimo, si costruiscono palazzi incantati. Tu sei lì dentro da qualche parte mummificato e non lo sai. Nessuna sregolatezza, nessuna mancanza di scrupoli, nessuna crudeltà sono considerate reali. Sulla soglia dell’eternità, ci toccherà raccontare una storia di giovincelli. Tutto è fraintendimento, e torpore. – Non contarci Jeanette. Per fortuna me ne andrò prima di te. E tu assisterai alla mia cremazione.

Jasmina Reza_Felici i felici

Mancarsi

C’era una donna – questa la storia – che amava il suo uomo in modo assoluto. Gli dedicava la vita e ne era felice. Si occupava di lui senza riserve, e non le importava di non avere altro da fare. Anzi, sentiva quasi come un disturbo qualsiasi occupazione o impegno la distogliesse anche pochissimo dal compito che s’era scelta.

Quando erano in compagnia di amici, bastava che lui aprisse bocca su un argomento qualunque perché lei lo guardasse con l’incanto di una ragazzina che, dopo tanto tramare, finalmente si ritrova nella stessa stanza col più bello della scuola. Ammirava il suo punto di vista sul mondo, e la grazia con cui lo proponeva. 

Senza di lui, non usciva neanche per fare la spesa. Lo seguiva dappertutto, ma era molto attenta a non invadere i suoi spazi. E quando un impegno di lavoro lo tratteneva fino a tardi, si faceva trovare sveglia ad aspettarlo. Per sé non chiedeva niente, le bastava stargli accanto.

Poi un giorno lui s’era ammalato ed era morto.

Tutti avevano pensato che lei non avrebbe sopportato la mancanza e si sarebbe lasciata andare, astenendosi dal vivere per seguirlo al più presto. Lo avevano pensato perché era comprensibile pensarlo e perché, per quanto disgraziato, è un bel pensiero.

Invece lei era rinata. Aveva ripreso ad uscire, viaggiare, riallacciare contatti, fare jogging (questa dello jogging era una probabile aggiunta dei remake successivi). Gli amici la incontravano dappertutto, al cinema, ai concerti, nei bei negozi del centro, e provavano un certo imbarazzo nel vederla così luminosa, così disinvolta nell’andare avanti.

Non che lui non le mancasse. Forse però le era mancata di più la sua vita. E adesso che l’aveva ritrovata, se la stava riprendendo.

Era singolare, pensava Nicola, come questa storia trovasse sempre lo stesso silenzio rispettoso (oppure omertoso, non si capiva) ad accoglierla. Come se nessuno avesse le carte in regola per biasimare quella donna.

“Era proprio necessario, – questa la domanda che tutti avrebbero voluto farle, – aspettare la morte per liberarti di un rapporto che ti stava stretto? Se sapevi (perché via, non potevi non saperlo) che non era più quella la vita che volevi, non sarebbe stato più onesto prendere prima la tua strada?”

Più che una domanda, una critica; che però veniva taciuta con la stessa spontaneità con cui montava dentro.

Era in quel silenzio intimidito e colpevole, in quella coda di paglia che censurava sul nascere ogni intento moralistico, che Nicola si riconosceva di più. Come tanti, anche lui si guardava bene dal giudicare, perché anche lui, come tanti, nel profondo sapeva che quello che soprattutto fa la persona che ami è occupare dello spazio, stare al mondo: diventare il tuo spazio e il tuo mondo. E il peggio è che ti può capitare, quando ti abitui a vivere in un mondo ridotto a una persona soltanto, è di pensare di avere abbastanza mondo per essere felice, addirittura diventarlo, e così raccontarti che nel resto del mondo, tutto quell’altro mondo che non è lei, non vuoi neanche più andarci; infatti non ci vai, e dopo un po’ ti senti persino fiero di aver smesso di frequentarlo, quel mondo così vasto, anche se poi quando viene a girare dalle tue parti o lo vedi dalla finestra ti sale un po’ il magone, e te ne torni dentro mordendoti le labbra.

Molto prima che l’incidente lo riconsegnasse a una vita che non si era mai permesso e di cui poteva fare quello che voleva, finalmente, Nicola aveva conosciuto il rimpianto della solitudine, la privazione di una libertà con cui avrebbe voluto riempire i suoi giorni (non per farci qualcosa, solo averla) e invece assaporava nei pochi, insufficienti spazi che riusciva a ritagliarsi.

Per questo gli sembrava perfettamente comprensibile – come tutti quelli che come lui tenevano la bocca chiusa su quella storia – che la donna del racconto avesse ritrovato la sua vita nella morte dell’uomo che amava.

Ed è per questo che oggi, per quanto gli costi ammetterlo, non riesce a soffrire completamente, né si sente sbagliato nell’uscire ogni giorno di casa con la speranza d’innamorarsi ancora, però stando bene attento a tenersi stretto il resto del mondo, questa volta.

Diego De Silva

Elogio

Eccole, compagne instancabili, che per tanti anni hanno assolto il loro compito, l’una tenendo fermo il foglio, l’altra moltiplicando sulla pagina bianca quei piccoli segni scuri, fitti, persistenti. Grazie ad esse l’uomo prende contatto con la dura consistenza del pensiero, arriva a forzarne il blocco. Sono le mani a imporre una forma, un contorno, e, nella scrittura, uno stile.

Le si potrebbe dire animate. Servitrici? Può darsi. Ma dotate di una natura energica e libera, di una fisionomia – volti senza occhi e senza voce, ma vedenti e parlanti. Ci sono ciechi che con l’andar del tempo acquistano una tale finezza di tatto per cui sono capaci di distinguere, sfiorandole, le figure di un mazzo di carte, che riconoscono attraverso lo spessore infinitesimo dell’immagine stampata. Anche i vedenti, però, hanno bisogno delle mani per vedere, per completare attraverso il tatto e la presa la percezione delle apparenze. Le attitudini proprie delle mani sono scritte nella loro linea e nel loro disegno: vi sono mani destinate per scioltezza all’analisi, vi sono le dita lunghe e agili del raisonneur, vi sono mani profetiche cariche di fluidi, mani spirituali cui l’inerzia stessa conferisce grazia e levità, mani fatte per la tenerezza. La fisiognomica, a suo tempo assiduamente praticata dagli artisti, si sarebbe avvantaggiata arricchendosi di un capitolo sulle mani. Il volto umano è soprattutto un intarsio di organi di ricezione. 

La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. In stato di quiete, non è un utensile senz’anima, un utensile abbandonato sul tavolo o lasciato ricadere lungo il corpo: in essa permangono, in fase di riflessione, l’istinto e la volontà di azione, e non occorre soffermarsi a lungo per intuire il gesto che si appresta a compiere.

Henri Focillon_Elogio della mano